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Costruire la Pace – Comunità locali di fronte le sfide globali

Mercoledì 19 marzo, presso la Chiesa di San Giuseppe al Lagaccio, si è tenuto l’incontro “Costruire la Pace – Comunità locali di fronte le sfide globali”, con la partecipazione di numerose associazioni:


  • Maria Di Pietro di Assopace Palestina

  • Stefano Kovac di Arci Genova e Scuola di Pace

  • Giacomo d'Alessandro della Piuma odv

  • Valentina Gallo e Matteo Montaldo di Music for Peace

  • Marco Oliveri della Comune

  • Massimiliano Suberati, docente, di Chiamata al Disarmo

  • Norma Bertullacelli di Ora di Silenzio per la Pace


Nel contesto di guerra che viviamo oggi, su diversi fronti, è innegabile la responsabilità dell'Occidente, complice con il proprio silenzio. All’interno del dibattito, o come meglio si potrebbe dire, del non-dibattito, vi sono diverse posizioni, tutte molte confuse e che troppo spesso escludono la nostra complicità in ciò che sta succedendo a Gaza, o in Ucraina.


La pace è un discorso molto complesso che necessita di una visione completa e a lungo termine; un processo enormemente articolato e continuo di critica e ricerca.

Pensiamo che la prima cosa fondamentale per costruire processi di pace sia lavorare in rete, cooperando e sintetizzando visioni differenti, con rispetto e curiosità.


E questo non sta succedendo in Europa; noi non ci sentiamo parte di quest'Europa, noi non siamo l'Europa della guerra nei Balcani, noi non siamo l'Europa degli accordi di Minniti con la Libia. Noi non vogliamo fare parte di un’Europa che progetta missioni di pace soltanto attraverso l’utilizzo di strumenti militari. Noi non possiamo far parte di un’Europa che favorisce e stimola folli perversioni nazionaliste e identitarie, che incita l’odio e la disgregazione, invece di unire sotto il cappello di un interesse comune. 


È inoltre importante considerare in chi ci vogliamo riconoscere noi e a chi vogliamo concentrare la nostra attenzione: non con i potenti decisori delle dinamiche globali troppo spesso schiavi di freddi processi economici, ma nei precari, negli invisibili, negli sfruttati. L'unica dicotomia che infatti pensiamo abbia senso evidenziare non è tra aggressore e aggredito (l'aggredito è sempre il popolo civile che ci rimette la vita) ma tra sfruttatori e sfruttati, e noi sappiamo benissimo con chi stare.


Ma cosa possiamo quindi fare noi? Nel nostro quotidiano dobbiamo impegnarci a costruire contesti di pacificazione, di libertà e difesa dei diritti. Dobbiamo viverli e agirli e lottare quando ci vengono sottratti. E dobbiamo farlo insieme, cooperando, accettando il diverso e ascoltando l’altro.


Il male di oggi non risiede solo nelle armi, ma nei mezzi di comunicazione con cui i vertici ci manipolano, alterando la realtà. La violenza a cui assistiamo non è perciò solo fisica e percepibile, ma anche subdola e manipolatoria. I social dal canto loro, la cui violenza è spesso atroce, partecipano a isolarci e a creare esperienze individuali, che di certo non servono a costruire ambienti condivisi di pace e rispetto.


All'interno delle comunità locali abbiamo a cuore il miglioramento della nostra vita; i comitati mirano a questo, costruendo un discorso su ambiente e cultura tra le altre cose, e lottando contro progetti calati dall'alto che non considerano la prospettiva delle persone e che quindi si allontanano da quella prospettiva di condivisione propria di un contesto di pace e benessere.


Bisogna vivere meglio, e bisogna farlo insieme, senza dubbi.

Bisogna creare percorsi alternativi a quelli che ci vengono proposti, per non perdere mai la spontaneità dei contesti di vita di cui facciamo parte; andare oltre e mettere in discussione ciò che ci viene proposto in modo critico e costruttivo.


La pace, come già detto, è il processo più complesso che ci sia, poiché ci si chiede sempre "si però?", "e dopo cosa si fa?”. Risulta difficile immaginare risultati concreti e nell’immediato, poiché siamo permeati da una cultura della guerra, del dominio e della sopraffazione. Ci sembra ormai normale che un popolo ne sottometta un altro o che la vita delle persone non abbia sempre lo stesso valore.


Da un punto di vista politico, bisogna creare alleanze larghe se vogliamo imporre la nostra visione maggioritaria, stando però attenti a mantenere una coerenza all’interno della pluralità delle idee.


Dobbiamo creare una cultura di pace attraverso tecniche di non violenza attiva; dobbiamo far capire che ci sono alternative e che dobbiamo lottare perché queste si realizzino. Dobbiamo prendere di mira le economie delle armi e rimettere al centro la vita delle persone, scalzando gli interessi economici. 


Il lavoro delle varie associazioni sta qui, o dovrebbe stare qui, nel conoscersi, nel vivere insieme, nel mettere in connessione le comunità locali e le persone al centro, e operare insieme con gli obiettivi della pace, la fratellanza ed il rispetto. Dobbiamo farlo tutti, nel nostro quotidiano, a tutti i livelli. Anche nel contesto istituzionale, dove l’esempio che diamo è ancora più rilevante: nei municipi, nei comuni, nelle regioni, in parlamento. Non possiamo scindere il contesto locale e quotidiano da quello globale, offrendo modelli di pace e rispetto continui e sempre più forti.


Una società che stimola e si nutre della competizione tra le persone, dell’arricchimento sfrenato oltre i limiti della necessità, dei miti del merito e dell’eccellenza non lascia spazio a nessuna pace.


Questo processo continuo che ci sentiamo obbligati a percorrere non riuscirà a fermare le guerre in atto, ma sicuramente limiterà la possibilità che scoppino conflitti in futuro; dobbiamo prevenire le guerre di domani con una cultura di pace diffusa e ponendo le basi per un equilibrio tra i popoli e gli stati. E nel far questo, dobbiamo far sentire ogni individuo parte di una comunità e responsabile.


Sintesi a cura di Fabrizio ALoi

 
 
 

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